autonomia
Ormai, dopo gli interventi fatti in questi giorni sulla stampa, possiamo dire che sugli immigrati si giuoca (se giuoco si può chiamare) a carte scoperte. Diversi sindaci di varie località, sparse in Trentino, hanno dichiarato che l’accoglienza diffusa per iniziativa comunale esiste e continua. Quindi non è vero, come dice il Presidente Fugatti che “durante i sette anni della mia presidenza non ho ricevuto nessuna disponibilità di sindaci del Trentino a ricevere quote di migranti….la verità è che l’accoglienza non la vuole nessuno”. Questa ultima affermazione è contraddetta dai fatti documentati perchè ci sarebbero già 18 comuni disponibili “come dice il Centro Astalli”.
Piuttosto c’è da dire che l’accoglienza diffusa, dove dipendeva dalla Provincia, è stata cancellata dal 2018 dall’allora Maggioranza con Presidente Fugatti, e di conseguenza gli immigrati sono stati concentrati al Centro con tutte le conseguenze negative che tutti conosciamo. Non si poteva lasciare gli immigrati dov’erano? Personalmente sono testimone diretto di quelli che erano alla palazzina dell’Enel di Peio. Stavano bene ed a un certo punto la Provincia, come per tutti gli altri centri di accoglienza sparsi nelle Valli, d’autorità è intervenuta con la soppressione.
Pertanto si abbia il coraggio di dire “gli immigrati non li vogliamo”. Ma questa volontà è contraddetta ormai dalle prese di posizioni di diverse realtà economiche e sociali. E’ voce quasi unanime che bisogna ritornare all’accoglienza diffusa se non per motivi umanitari almeno per convenienza visto il grande bisogno di manodopera di provenienza straniera. Quindi è urgente ed indispensabile il cambiamento di rotta da parte della politica provinciale in merito all’accoglienza degli immigrati. Sono tutti d’accordo nella Maggioranza di continuare nella linea dura attuale? E chi non è d’accordo non può farsi sentire? Chi vuol essere veramente cristiano deve sapere che la scelta attuale certo non la vuole la Chiesa alla quale si dice di appartenere, ma non la vuole neppure la società civile responsabile e sensibile ai problemi umani. Chi si vuol rappresentare allora? L’egoismo o la solidarietà per non parlare anche di interesse? Ad ognuno la libera scelta. E non si può nascondersi dietro a un dito. Bisogna cambiare motto: passare dal come respingere al come accogliere.
Purtroppo l’immigrato da qualcuno è visto e trattato come un lebbroso. Questi deve stare alla larga, disturba la nostra quiete, respingiamolo. In troppi prevale l’atteggiamento del: godiamoci da soli il nostro benessere, magari frutto delle fatiche degli sfruttati guardati dall’alto in basso anche se dobbiamo ammettere che nei rapporti di lavoro tante cose sono cambiate e ci sono datori di lavoro corretti e responsabili. Menomale quindi che accanto a tanto egoismo c’è ancora tanto altruismo, tanta solidarietà, tanta gente che si dedica agli altri, che vuole bene a chi ne ha di bisogno, che pensa a certe mamme, a tanti bambini, a tanti anziani, a tanti uomini che vogliono solo guadagnarsi il pane quotidiano, quel pane che nel Padre Nostro chiediamo al plurale e non al singolare (…dacci oggi il nostro pane quotidiano…). Ad ognuno fare la scelta da che parte stare. Ed è una scelta che fa tremare le vene e i polsi per la grande responsabilità morale che comporta, in particolare per un credente cristiano. Infatti è’ scritto nel Vangelo che saremo giudicati soprattutto da questo: “avevo fame e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere, ero ignudo e mi hai vestito ecc…”
Quando penso a quanto ho visto in Africa in tanti anni e viaggi e so il perché tante persone, a proprio rischio e pericolo, lasciano con tanta sofferenza la loro terra, mi chiedo perché c’è tanto rifiuto ed anche disprezzo nei confronti di questi nostri fratelli che non hanno nessuna colpa per essere nati nella miseria, come noi non abbiamo nessun merito per essere nati in un certo benessere? E pensare quanto sono stati sfruttati e lo sono ancora dal mondo ricco! A noi la responsabilità di collocarci al posto giusto e contribuire per ristabilire quella uguaglianza e giustizia che sono la base per garantire una serena e pacifica convivenza umana.
Luigi Panizza ex assessore provinciale e componente “Casa e Autonomia E.U.”
Oggi una delegazione di consiglieri e consigliere provinciali di minoranza dell’Alleanza Democratica Autonomista (Valduga, Manica, Demagri, Coppola, Calzà, Maule, Parolari, Zanella), assieme ai consiglieri del Comune di Trento Lenzi e Zappini e all’avvocato Valcanover, è stata in visita alla Casa circondariale di Spini di Gardolo.
Obiettivo della visita è stato semplicemente quello di scambiarsi gli auguri per le feste natalizie con le persone recluse e di manifestare loro vicinanza in un momento in cui la privazione della libertà e la lontananza dagli affetti si fa particolarmente sentire.
In un contesto politico sempre più intriso di populismo penale, in un contesto anche provinciale in cui le carceri sono sempre più affollate (a Trento sui 240 posti previsti sono presenti 364 detenuti, di cui 318 uomini e 46 donne), in un sistema penitenziario in cui il numero di suicidi è in continuo aumento (tra i detenuti, ma anche tra gli appartenenti alla polizia penitenziaria), in un contesto complessivo nel quale l’esecuzione della pena intramuraria risponde in modo del tutto marginale al dettato rieducativo previsto dalla nostra Costituzione, abbiamo deciso di limitarci alla visita alle celle (senza passare dal reparto sanitario, area trattamentale, …) per raccogliere dalla viva voce delle persone detenute vissuti, disagi e problemi.
Innanzitutto segnaliamo le condizioni detentive delle celle d’isolamento, particolarmente fredde (ci viene riferito che il riscaldamento funziona solo di sera/notte), dove abbiamo trovato una persona reclusa con evidenti alterazioni psichiche, che dovrebbe essere collocata altrove (nella REMS, oggi piena), ma non assolutamente in un contesto d’isolamento chè è inadatto a una gestione dignitosa del suo disagio.
Peraltro, alcune altre criticità ci sono state segnalate in modo ricorrente direttamente dalle testimonianze di uomini e donne detenuti/e.
Innanzitutto la carenza di opportunità lavorative e quindi rieducative: molti o non lavorano, aspettando il proprio turno rispetto alle insufficienti attività disponibili, oppure lavorano solo tre ore al giorno. Riferiscono inoltre di percepire arbitrarietà nei criteri di assegnazione delle opportunità lavorative.
Poi il permanere di ritardi nella stesura delle sintesi (relazione dopo un periodo di osservazione), nonostante l’organico dei funzionari giuridico pedagogici (educatori) sia passato da due a sette da qualche mese. Questo si pone come particolare fattore afflittivo poiché nei fatti determina un oggettivo ostacolo alla richiesta di permessi e misure alternative.
Altra questione relativa al rapporto con la Magistratura di sorveglianza che ci è stata segnalata da un numero significativo di persone recluse sarebbe quella dei ritardi – che diventano per i richiedenti estenuanti – per ottenere una risposta rispetto alle richieste di permessi e di misure alternative. Ritardi con frequenza correlati anche ai tempi di attesa dovuti ai ricorsi avverso i dinieghi del Magistrato di sorveglianza. Si consideri come per questo Natale solo 7 su 364 detenuti/e abbia effettivamente ottenuto un permesso.
Tutte criticità importanti, assieme alla già nota carenza di personale di polizia penitenzia, sovraccarico di lavoro e che necessiterebbe anch’esso di supporto psicologico, criticità che ostacolano il percorso rieducativo di chi sta in carcere e che riporteremo prontamente al nuovo Garante dei diritti dei detenuti, dott. Pavarin.
intervento di Luigi Panizza
Ho letto in questi giorni sui vari mezzi di comunicazione che l’assessore all’istruzione Gerosa con l’anno scolastico 2025-2026 vuole istituire nei vari Istituti Scolastici una nuova figura scolastica che si chiamerebbe FaBER cioè “Facilitatore del Benessere Emotivo e Relazionale” che avrebbe il compito appunto di “promuovere il benessere emotivo e relazionale degli studenti, favorendo resilienza, apprendimento e relazioni positive”. Premesso tutto questo mi permetto da ex insegnante e preside di Scuola Media di fare alcune considerazioni.
Che sia in atto e diffuso un disagio giovanile preoccupante lo dimostrano i fatti e le cronache oltre ai rilievi concreti fatti dal personale direttivo e docente della Scuola e dai genitori stessi. Prenderne atto è senz’altro doveroso, ma non basta. Come per analogia con la salute fisica è importante prendere atto del disturbo fisico che si fa sentire e quindi andare dal medico che prescrive la cura e nello stesso tempo cerca di individuare le possibili cause perché il disturbo, o la malattia non si ripetano, Così si dovrebbe fare con i disturbi psicologici giovanili. E’ giusto intervenire tempestivamente.
Ma chi? Chi può essere il competente nella scuola? Come non ci si improvvisa medico così non ci si improvvisa “FaBER”. Si può con 27 ore di corso, come prevederebbe la legge, diventare esperti per assumere ruoli e competenze che richiedono anni di studio e preparazione? Se posso continuare con l’analogia di cui sopra sarebbe come affidare il compito dell’intervento per la salute fisica ad un improvvisato guaritore. Il pericolo è quello di causare più danni che ottenere vantaggi. Infatti, se chi si sottovaluta non sfrutta a sufficienza le proprie capacità e competenze, ma chi si sopravvaluta corre il pericolo di fare danni o per lo meno di non raggiungere gli obiettivi che si propone. Pensando all’eccezionale importanza e delicatezza del problema del disagio giovanile odierno a maggior ragione vanno ricercati strumenti e mezzi adeguati, non certo con 27 ore di corso. Anche la nuova assessora all’Istruzione vuol realizzare nell’ambito educativo- psicologico quanto non è riuscito a realizzare in altri ambiti (esperto, ricercatore, delegato all’organizzazione) il suo predecessore. Si sta ripetendo, pedissequamente, ciò che è già accaduto. Se è lodevole porre il problema e cercarne la soluzione, ritengo tuttavia, troppo superficiale e inadeguato, lo strumento proposto per affrontarlo. Piuttosto che sprecare il denaro nella proposta in corso ritengo più utile coinvolgere genitori e docenti con esperti psicologi e pedagogisti per sensibilizzare sulla problematica ed individuare mezzi e strumenti, il più possibile adeguati, alla complessità ed importanza del problema. Qualora si insistesse sulla nuova figura, che si vuole istituire, ci sono gli specialisti del settore che sono gli psicologi. Ad ognuno la sua competenza per raggiungere gli obiettivi che si vogliono realizzare.
La preoccupazione deve essere quella di far le cose, sì, prima possibile, ma anche perbene, e dopo aver seguito un percorso che possa garantire il successo con le persone giuste. E non è certo male dopo aver individuato, come per l’ammalato la cura, ricercare anche le cause di quanto sta accadendo. E’ certo che i nati in questi anni non sono diversi dai nati precedentemente. Non si nasce col disagio, il disagio nasce e trova il suo terreno fertile soprattutto nelle esperienze negative che fanno i disagiati o le disagiate nell’ambito familiare e, o, nel contesto sociale.
La crisi di valori, principi ed ideali offre un terreno favorevole alla nascita del disagio giovanile. Il tutto e subito, i modelli negativi offerti dai mezzi di comunicazione non concorrono certo a rafforzare il carattere della persona per affrontare le inevitabili difficoltà che la vita riserva ad ognuno, già in età giovanile. Concludo consigliando l’assessora Gerosa a riflettere su quanto hanno detto in questo periodo persone competenti che dissentono da quanto l’assessora va proponendo. L’innovazione non è di per sé migliorativa, ma può essere anche peggiorativa, anche se, in tal caso, non è certamente nelle buone intenzioni di chi la propone. Tanto ho scritto, non certo per motivi politici, ma solo per contribuire al bene degli utenti della scuola.
Che l’insoddisfazione verso il servizio sanitario locale regni sovrana, è fatto notorio. Sembra quasi che l’Autonomia statutaria della quale siamo dotati nulla abbia potuto contro un declino sempre più palese. Da qualche anno, la situazione sembra piuttosto peggiorare. Nemmeno il ricorso ai privati, nel tentativo di recuperare liste d’attesa drammaticamente inevase, ha dato i risultati sperati.
Nel frattempo, tuttavia, il sistema medico non è rimasto a guardare cercando da sempre comunque, di adottare le migliori pratiche che la comunità scientifica internazionale mette a nostra disposizione. Un esempio tra tutti: si tratta di un nuovo metodo per gestire la riabilitazione post-operatoria di protesi totale al ginocchio. Nonostante la cronaca abbia rilevato qualche lieve preoccupazione di natura politica, la scienza può senz’altro affermare che le scelte attuali in materia di riabilitazione sono il risultato di analisi approfondite e di evidenze consolidate e non certo di una mera riduzione dei servizi disponibili.
Il passaggio verso un modello di riabilitazione ambulatoriale non rappresenta una diminuzione della qualità dell’assistenza, ma un tentativo di rispondere in modo più efficiente alle esigenze di un sistema sanitario in evoluzione. Le ricerche dimostrano infatti che la riabilitazione ambulatoriale può essere altrettanto efficace, se non di più, rispetto alla riabilitazione in degenza, specialmente per pazienti con condizioni generali favorevoli e un adeguato supporto sociale. Questo approccio consente di liberare risorse ospedaliere per i pazienti che necessitano di cure più intensive, contribuendo a un utilizzo più equo e sostenibile delle risorse sanitarie.
Inoltre, l’adozione di un modello riabilitativo “esterno” permette di soddisfare con maggiore rapidità la crescente domanda di interventi protesici, un’esigenza in costante aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione e della maggiore attività fisica. Questo approccio non solo migliora l’efficienza del sistema sanitario, ma consente anche ai pazienti di ricevere cure in tempi più brevi, garantendo un recupero più rapido. La riduzione della degenza in ambienti promiscui contribuisce inoltre a diminuire il rischio di infezioni nosocomiali complicanze legate all’ospedalizzazione.
La riabilitazione ambulatoriale, studi alla mano, offre risultati migliori in termini di soddisfazione del paziente e suo recupero funzionale rispetto alla riabilitazione in degenza (Vogt et al., 2020; Kellett et al., 2019; Ustead et al., 2020).
Certo, è essenziale che i pazienti siano informati sulle potenzialità di queste nuove modalità di intervento, con un sistema di assistenza ben strutturato. Le sedute devono essere tempestive e in numero adattabile alle necessità specifiche dei pazienti.
Da questo esempio ben si comprende perché le politiche sanitarie debbano basarsi su un’analisi costante delle evidenze e delle migliori pratiche, piuttosto che su un confronto diretto con altre regioni, che potrebbero avere invece caratteristiche demografiche e sanitarie diverse. Le decisioni devono essere guidate da un principio di equità nell’accesso alle cure. La riorganizzazione dei servizi, specie facendo ricorso alle prerogative della nostra Autonomia, deve essere vista come un’opportunità per migliorare l’assistenza, integrando innovazioni e rispondendo alle esigenze di un sistema in evoluzione. Solo attraverso un dialogo aperto e collaborativo tra gli attori del sistema sanitario, i professionisti e i cittadini è possibile garantire che le scelte siano realmente al servizio della popolazione.
Il caso dunque di un cambio di approccio alla riabilitazione post-operatoria è almeno una prima piccola risposta ai mille quesiti che il Trentino deve porre alla nuova Sanita post Covid. L’obiettivo deve essere quello di un livello adeguato di cura, integrando innovazioni e rispondendo alle esigenze di un sistema in evoluzione. Solo attraverso un approccio informato e collaborativo è possibile garantire il miglioramento della salute e del benessere dei cittadini. Da qui si evince che il ricorso al privato o la costruzione di una nuova struttura ospedaliera a nulla serviranno se non supportate dall’ascolto di una classe medica sempre attenta e propositiva – verso politica e cittadini – di nuovi modelli di cura e approccio alle patologie. Che la politica ascolti e agisca di conseguenza, che i cittadini siano più attenti a scegliere una classe politica adeguata.
Consigliera Provinciale Casaautonomia.eu
Paola Demagri
Ricorso al privato, Sanità 4.0 e NOT, basteranno a colmare le precarietà del sistema sanitario trentino?
Che l’insoddisfazione verso il servizio sanitario locale regni sovrana, è fatto notorio. Sembra quasi che l’Autonomia statutaria della quale siamo dotati nulla abbia potuto contro un declino sempre più palese. Da qualche anno, la situazione sembra piuttosto peggiorare. Nemmeno il ricorso ai privati, nel tentativo di recuperare liste d’attesa drammaticamente inevase, ha dato i risultati sperati.
Nel frattempo, tuttavia, il sistema medico non è rimasto a guardare cercando da sempre comunque, di adottare le migliori pratiche che la comunità scientifica internazionale mette a nostra disposizione. Un esempio tra tutti: si tratta di un nuovo metodo per gestire la riabilitazione post-operatoria di protesi totale al ginocchio. Nonostante la cronaca abbia rilevato qualche lieve preoccupazione di natura politica, la scienza può senz’altro affermare che le scelte attuali in materia di riabilitazione sono il risultato di analisi approfondite e di evidenze consolidate e non certo di una mera riduzione dei servizi disponibili.
Il passaggio verso un modello di riabilitazione ambulatoriale non rappresenta una diminuzione della qualità dell’assistenza, ma un tentativo di rispondere in modo più efficiente alle esigenze di un sistema sanitario in evoluzione. Le ricerche dimostrano infatti che la riabilitazione ambulatoriale può essere altrettanto efficace, se non di più, rispetto alla riabilitazione in degenza, specialmente per pazienti con condizioni generali favorevoli e un adeguato supporto sociale. Questo approccio consente di liberare risorse ospedaliere per i pazienti che necessitano di cure più intensive, contribuendo a un utilizzo più equo e sostenibile delle risorse sanitarie.
Inoltre, l’adozione di un modello riabilitativo “esterno” permette di soddisfare con maggiore rapidità la crescente domanda di interventi protesici, un’esigenza in costante aumento a causa dell’invecchiamento della popolazione e della maggiore attività fisica. Questo approccio non solo migliora l’efficienza del sistema sanitario, ma consente anche ai pazienti di ricevere cure in tempi più brevi, garantendo un recupero più rapido. La riduzione della degenza in ambienti promiscui contribuisce inoltre a diminuire il rischio di infezioni nosocomiali complicanze legate all’ospedalizzazione.
La riabilitazione ambulatoriale, studi alla mano, offre risultati migliori in termini di soddisfazione del paziente e suo recupero funzionale rispetto alla riabilitazione in degenza (Vogt et al., 2020; Kellett et al., 2019; Ustead et al., 2020).
Certo, è essenziale che i pazienti siano informati sulle potenzialità di queste nuove modalità di intervento, con un sistema di assistenza ben strutturato. Le sedute devono essere tempestive e in numero adattabile alle necessità specifiche dei pazienti.
Da questo esempio ben si comprende perché le politiche sanitarie debbano basarsi su un’analisi costante delle evidenze e delle migliori pratiche, piuttosto che su un confronto diretto con altre regioni, che potrebbero avere invece caratteristiche demografiche e sanitarie diverse. Le decisioni devono essere guidate da un principio di equità nell’accesso alle cure. La riorganizzazione dei servizi, specie facendo ricorso alle prerogative della nostra Autonomia, deve essere vista come un’opportunità per migliorare l’assistenza, integrando innovazioni e rispondendo alle esigenze di un sistema in evoluzione. Solo attraverso un dialogo aperto e collaborativo tra gli attori del sistema sanitario, i professionisti e i cittadini è possibile garantire che le scelte siano realmente al servizio della popolazione.
Il caso dunque di un cambio di approccio alla riabilitazione post-operatoria è almeno una prima piccola risposta ai mille quesiti che il Trentino deve porre alla nuova Sanita post Covid. L’obiettivo deve essere quello di un livello adeguato di cura, integrando innovazioni e rispondendo alle esigenze di un sistema in evoluzione. Solo attraverso un approccio informato e collaborativo è possibile garantire il miglioramento della salute e del benessere dei cittadini. Da qui si evince che il ricorso al privato o la costruzione di una nuova struttura ospedaliera a nulla serviranno se non supportate dall’ascolto di una classe medica sempre attenta e propositiva – verso politica e cittadini – di nuovi modelli di cura e approccio alle patologie. Che la politica ascolti e agisca di conseguenza, che i cittadini siano più attenti a scegliere una classe politica adeguata.
La sanità trentina, un tempo ammirata per la sua efficienza e per il forte senso di
appartenenza dei suoi operatori, si trova oggi a vivere una fase di profonda crisi. La
disaffezione del personale è testimoniata da un numero crescente di dipendenti che
scelgono di abbandonare il servizio pubblico, un fenomeno che non può essere giustificato
semplicemente con il trend nazionale. Il Trentino, storicamente, si è distinto per una forte
identità professionale e un attaccamento al proprio lavoro, eppure, ora, assistiamo a un
disimpegno preoccupante.
La scarsa partecipazione alle scuole di specializzazione e ai corsi di infermieristica è un altro
campanello d’allarme che non possiamo ignorare. L’assenza di nuovi professionisti nel
sistema sanitario, in un contesto dove le esigenze di assistenza continuano a crescere, è
destinata a creare un vuoto difficile da colmare. Gli operatori sanitari, soprattutto i medici
ospedalieri, si sentono disorientati e scoraggiati, ignari dei reali propositi della giunta
provinciale riguardo al futuro della sanità trentina. La mancanza di comunicazione e di
chiarezza sui progetti in atto contribuisce a un clima di sfiducia che mina la motivazione di
chi lavora quotidianamente per garantire qualità e sicurezza nelle prestazioni.
Uno dei temi più critici è sicuramente il progetto del nuovo ospedale trentino. L’incertezza su
quando sarà realmente operativo, unita alla mancanza di indicazioni chiare su come gestire
il periodo di transizione, sta aggravando la situazione. Gli ospedali periferici, nel frattempo,
continuano a vivere in una condizione di limbo, senza una connotazione definita, mentre
l’unica certezza è che si naviga a vista. Le risorse interne sembrano essere allocate non
sulla base di criteri organizzativi e programmatici, ma piuttosto in base a logiche di
personalismi e rivalse , con il risultato di creare un quadro di disfacimento generale di quanto
di buono era stato realizzato fino a oggi.
Questa situazione non è solo un problema di gestione, ma ha conseguenze dirette sulla
qualità delle prestazioni sanitarie. Stiamo assistendo a uno sperpero di risorse per
mantenere in vita reparti che non raggiungono neanche la metà delle soglie minime di
struttura, mettendo a rischio sia la qualità che la sicurezza delle cure. Al contempo, centri di
eccellenza, riconosciuti dalla stessa utenza, vengono mortificati e privati del supporto
necessario per operare al meglio.
In questo contesto, è fondamentale chiedersi e conoscere quale sia l’obiettivo della
Provincia autonoma di Trento per il futuro della sanità. È tempo di ripensare le strategie, di
ascoltare le istanze del personale sanitario e di restituire fiducia a chi lavora in prima linea.
La neonata Scuola di Medicina dell’Università di Trento rappresenta un ulteriore dilemma in
questo scenario complesso. Da un lato, la creazione di una scuola di medicina offre
l’opportunità di formare nuovi professionisti sul territorio, contribuendo a colmare il gap di
personale che stiamo vivendo. Dall’altro, sorgono interrogativi sul come questa nuova
istituzione possa integrarsi con il sistema sanitario locale e quale sia il suo impatto sulla già
fragile situazione attuale.
Gli studenti di medicina, ora parte integrante del panorama trentino, devono poter
visualizzare un percorso professionale chiaro e sostenibile. Tuttavia, il disorientamento tra i
medici ospedalieri e la mancanza di una visione strategica da parte della giunta provinciale
potrebbero minare la loro motivazione e la qualità della formazione. Se le aspettative non
saranno allineate con le reali necessità del sistema sanitario, potremmo trovarci a formare
professionisti senza un adeguato sbocco lavorativo, rischiando di ripetere gli errori del
passato.
In definitiva, la sanità trentina ha bisogno di una visione chiara e condivisa, che metta al
centro le persone e la loro salute. Solo così potremo evitare di scivolare ulteriormente nelle
graduatorie di merito nazionali e di demotivare coloro che, con impegno e dedizione,
continuano a lavorare per il bene della comunità.
La sfida è quella di costruire un sistema sanitario integrato e sostenibile, dove la formazione,
la gestione e l’assistenza siano in perfetta armonia, in modo che il Trentino possa tornare a
essere un esempio di eccellenza nel panorama sanitario nazionale.
Oggi su richiesta delle minoranze consiliari la Quarta Commissione permanente ed alcuni altri/e consiglieri/e sono stati in visita alla residenza Fersina.
Innanzitutto va detto che per potervi accedere abbiamo atteso a lungo perché arrivasse il nulla osta dal Commissariato del Governo, come prevede la norma. Norma che di fatto rende i Centri di accoglienza straordinaria meno accessibili da parte dei consiglieri provinciali persino di carceri e CPR.
Un’autorizzazione alla visita che incomprensibilmente ha tuttavia escluso la possibilità di accesso agli spazi “alloggiativi” delle persone ospitate – le stanze – il che ha reso la visita del tutto parziale rispetto alla possibilità di verificare le reali condizioni di vita all’interno.
Tra i pochi spazi visitati, va denunciato lo stato dei bagni, eufemisticamente indecoroso quanto insalubre per la presenza di alcuni wc e “turche” inagibili, di alcune parti di pareti significativamente piene di muffe verdastre e umidità che impongono la necessità di tenere aperte le finestre per arieggiare da maleodoranti odori stagnanti, con anche alcuni controsoffitti mancanti. Alcuni ragazzi richiedenti protezione internazionale ospitati nella Residenza ci hanno raccontato delle ragioni che li hanno mossi ad intraprendere un viaggio dal Marocco all’Italia attraverso la rotta balcanica: la più che legittima volontà di migliorare le proprie condizioni di vita. Per le persone lì residenti la priorità è imparare la lingua – un servizio non offerto in modo strutturale dalla Provincia dentro la struttura – per poter lavorare e trovare una casa. Ci hanno riferito delle difficoltà a trovare un lavoro con un permesso di soggiorno temporaneo. I responsabili della cooperativa Kaleidoscopio che si occupa dell’accoglienza nella Residenza Fersina ci hanno raccontato delle “fratture esistenziali” che affliggono larga parte delle persone accolte. Fratture esistenziali politraumatiche, esito non solo delle esperienze di vita nei luoghi di origine, ma anche sviluppate in ragione della permanenza “in strada” vivendo in Italia e nel nostro territorio in condizioni di marginalità sociale oggettiva, in attesa che si liberi un posto in accoglienza. Fratture esistenziali che purtroppo, se non accolte e supportate prontamente con interventi e strategie adeguate possono essere certamente fattori concorrenti a comportamenti di devianza sociale, che minano anche la convivenza nella Residenza Fersina.
Una visita quella odierna che -ove ancora ve ne fosse necessità rispetto alle evidenza già ampiamente riscontrate – dimostra l’urgenza di ripristinare un modello di accoglienza che non concentri le persone in una sola struttura (la Fersina è una delle più grandi d’Italia), riappropriandosi di quell’accoglienza diffusa che non solo garantisca la tutela e i diritti fondamentali delle persone richiedenti protezione internazionale, ma che altresì garantisca maggiori risultati rispetto all’integrazione e quindi, anche, alla sicurezza sociale. Ma anche nell’ottica di dare maggiori opportunità di lavoro: la sera vi è l’obbligo di rientrare in struttura e questo impedisce ai ragazzi lì ospitati di lavorare nelle valli, mentre albergatori e imprese continuano a non trovare personale.
Un assurdo continuare con questo insensato concentramento sul capoluogo che è un incaponimento ideologico del Presidente. Infine una riflessione sulla normativa che regolamenta le migrazioni. I ragazzi marocchini che abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare si stanno impegnando per integrarsi e lavorare nel territorio. Un investimento che rischia di non dare i frutti sperati e di mandare in frantumi le speranze delle persone richiedenti protezione internazionale, visto che le chance di una persona marocchina di vedersi riconosciuto l’asilo o la protezione sussidiaria sono davvero poche.
Un assurdo perdere persone che si sono inserite nel territorio, che un tempo avrebbero avuto qualche speranza di restare grazie alla protezione speciale cancellata dal Governo Meloni.
Consiglieri Paolo Zanella e Paola Demagri
Dopo il finanziamento del “bonus psicologo” 2023 (per le richieste presentate nella primavera 2024), la Provincia ha deciso di non rifinanziarle in futuro questa misura d’accesso alle cure psicologiche.
Beffardamente l’assessore ne ha dato comunicazione all’Ordine degli psicologi nella Giornata mondiale della salute mentale, nella quale venivano presentati i dati sui disturbi psicologici in aumento: nevrosi, disturbi affettivi e di personalità, tentati suicidi…
Le ragioni di questo mancato rifinanziamento addotte dall’assessore Tonina sono sostanzialmente due: innanzitutto il superamento del periodo emergenziale post-CoViD-19 per cui le Province autonome avevano già deciso di non accedere più ai Fondi statali, ma di far fronte con risorse proprie; fondi che ora la Provincia di Trento non ha più intenzione di stanziare. La seconda ragione è che per far fronte ai bisogni psicologici il Trentino ha già un servizio di Psicologia clinica in APSS e vi sono anche studi psicologici accreditati e convenzionati.
Tutto vero, ma ci sono persone che necessitano di cicli di psicoterapia più lunghi di quello offerti da APSS e gli studi convenzionati sono di fatto pochissimi. I dati del bonus 2022 dimostrano che anche in Trentino la richiesta non si risolve con il servizio di APSS o con gli psicologi convenzionati e quindi o si potenziano quei servizi, oppure i contributi per accedere alla psicoterapia vanno mantenuti.
In Trentino nel 2023 (Fondo “bonus psicologo” 2022) sono state fatte quasi 3000 richieste, di cui 500 finanziate. Nel 2024 (fondi 2023) in Italia 400.000 richieste e finanziate nemmeno l’1% (ridotti i fondi). Lo studio PsyCare commissionato dal Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi in collaborazione con diverse Università, ha documentato l’efficacia della misura, sia in termini di esiti sull’utenza che di risparmio in termini di ore di malattia risparmiate sul lavoro. Inoltre ha documentato che il 72% delle persone che vi hanno fatto ricorso non aveva mai effettuato sedute di psicoterapia e di queste l’81% anche per motivi economici. Di qui l’importanza di sostenere le fasce economiche più in difficoltà per l’accesso alle cure psicologiche.
Per questo abbiamo presentato un’interrogazione per chiedere:
- se davvero ritenga sufficiente la risposta del pubblico ai bisogni psicologici attraverso i servizi di psicologia clinica di APSS e gli studi di psicoterapia convenzionati, visto l’aumento del disagio e dei disturbi psicologici, testimoniato anche dalle richieste di “bonus psicologo”;
- se non si ritenga necessario integrare la norma provinciale – e gli atti amministrativi conseguenti – rispetto a una semplificazione degli accreditamenti degli studi di psicoterapia convenzionati, alle modalità di presa in carico da parte di questi e a un ampliamento degli ambiti di intervento;
- se non si ritiene utile pensare a forme stabili di sostegno in base all’ICEF per l’accesso alla psicoterapia, dal momento che la risposta dell’UO di Psicologia clinica e degli psicoterapeuti convenzionati paiono insufficienti per far fronte ai bisogni manifestati.