I 45 anni del sistema sanitario pubblico: storia di un successo da rilanciare.

Da Paola Demagri

Federico Busetti

Proprio così, tutto vero. Quest’anno il Sistema sanitario nazionale compie 45 anni. Fu con la legge 833 del
1978 che l’Italia si dotava di una meravigliosa macchina organizzativa mirata alla tutela della salute della
popolazione. Meravigliosa perché basata su principi di universalità, uguaglianza e equità.

In sostanza si garantiva l’assistenza a qualunque cittadino al di là del reddito, della religione, della classe sociale. Per
questo raggiungeva e raggiunge una capillarità d’azione che molti paesi ci invidiano. Sembra essere stata
l’ultimo grande colpo di genio della politica italiana, il fiore all’occhiello dello spirito post-bellico del nostro
Paese, successivamente affievolitosi. Lo stesso slancio innovatore che aveva creato i presupposti per il
boom economico e dunque il trascinamento dell’Italia verso una ricchezza prima sconosciuta.


Alla fine degli anni settanta la società mostrava già le sue crepe, i dissidi e l’irrequietezza pervadevano di
sovente l’animo delle nuove generazioni, i venti di rivolta soffiavano forti. Mentre la politica era inerme
difronte al desiderio di cambiamento auspicato da ampi strati di popolazione, senza saperne interpretare le
istanze, senza riuscire a capirne le intime motivazioni, il ministro Tina Anselmi riusciva a utilizzare gli
strumenti democratici, all’epoca minacciati da gruppi terroristici di varia natura e appartenenza politica, al
fine dell’approvazione di uno dei sistemi sanitari migliori del mondo, se non come qualità, certo quanto a
diffusione delle cure.

Nello stesso anno in cui le Brigate Rosse erano all’apice della propria azione,
culminata nel rapimento e successiva uccisione del Presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro e
massimo era l’attacco apportato dall’organizzazione all’esistenza stessa della Repubblica.
Fu un capolavoro, si passava dagli enti mutualistici e le casse mutue in cui l’erogazione delle cure era
strettamente legato alla condizione lavorativa, all’applicazione dell’articolo 32 della Costituzione, che
identifica lo Stato come ente garante della salute dei cittadini, essendo essa un diritto dell’individuo ed
elemento da proteggere e valorizzare nell’interesse della collettività.


Facendo poi un brevissimo excursus storico è in obbligo la menzione degli anni novanta, tempo in cui il
governo Amato, con ministro della salute De Lorenzo, iniziò la regionalizzazione della salute. Gli ospedali
vennero trasformati in aziende sanitarie locali con un’autonomia propria, sebbene ancora rispondente al
potere centrale. Correva l’anno 1992, tangentopoli e il prelievo forzoso sui conti correnti per evitare il
tracollo economico di una Stato vicino al collasso, minato dalla crisi economica, ma anche e forse
soprattutto dalla stagione stragista attuata dalla mafia, elementi che fecero nuovamente vacillare la
credibilità dello Stato davanti agli occhi severi degli osservatori internazionali.


Seguirono poi altre modifiche e riforme, come quella voluta dal Ministro Bindi che, tra le altre cose, istituiva
i livelli essenziali di assistenza, ossia quelle prestazioni sanitarie definite come minime e dunque
obbligatoriamente erogate dal Sistema sanitario nazionale (SSN).
Quello che conta è che, nonostante le modifiche intercorse, le riforme e i correttivi apportati, il SSN ha
sempre retto. Finora si è sempre riusciti a salvarne le istanze fondamentali, facendo fronte al bisogno di
salute della popolazione.
Negli ultimi anni però il mondo e con esso l’Italia sono cambiati, facendo emergere nuovi problemi, fino ad
ora più o meno dolosamente non affrontati.

Così il nostro Paese sembra abbia subito in pochi anni la concorrenza sanitaria dell’Europa. Non ha saputo
agganciarla, stavolta non dal punto di vista dei pazienti, e cioè della qualità delle cure che rimangono di alto
livello, ma per quanto attiene ai lavoratori del settore.
È questa la nuova minaccia. Sono ora medici,
infermieri, tecnici, oss che sembrano disaffezionarsi sempre di più al proprio datore di lavoro, il SSN.

Poco a poco si è assistito quindi all’avanzata di una concezione di sanità sempre più privata.

La monetizzazione della salute, in cui al fianco del sistema pubblico sempre meno in grado di garantire
efficienza e adeguate tempistiche di trattamento, ha preso piede un sistema privato, che in alcune regioni è
ormai dominante. Si tradisce dunque il diritto alla salute, ossia il già citato art.32 delle Costituzione e quel
che è peggio, si creano enormi disuguaglianze tra ricchi e poveri, aumentando sempre di più il divario tra i
differenti strati di popolazione. I vari governi hanno tagliato al comparto sanità circa 37 miliardi di euro
negli ultimi 10 anni. Questo ha voluto dire per il SSN cedere sempre più competenze ai privati, stipulando
convenzioni.
Anche la nostra Provincia autonoma sembra ora doversi confrontare con un problema fino a pochi anni fa
quasi sconosciuto, ossia lo scadimento del proprio Sistema sanitario: medici che abbandonano il pubblico
stremati e insoddisfatti, liste d’attesa infinite, migrazione sanitaria. A tutto questo si contrappone un
immobilismo politico intollerabile.


A parole il SSP è difeso da tutti ma alla prova dei fatti l’attuale Giunta sembra brancolare nel buio più
totale, nessuna strategia, nessuna pianificazione per la sanità dell’imminente futuro, nessuna capacità di
ideare strumenti convincenti per tamponare l’emorragia di medici e invertire la rotta,
per promuovere un
sistema in potenza ottimo ma bisognoso di rilancio. Anzi ho l’impressione si tenti volutamente di minare
sempre più il sistema pubblico, addirittura speculando anche tramite l’edilizia sanitaria, proponendo, per
esempio, un insensato progetto qual è l’Ospedale a Masi di Cavalese, naturalmente voluto dai privati. Senza
un minimo di pianificazione futura, in un momento di carenza di medici persino nel capoluogo, nonchè di
estrema incertezza in merito al destino dei nosocomi periferici, si presenta, peraltro in maniera truffaldina
e poco trasparente, un progetto di un nuovo ospedale, che cambierebbe per sempre la vita non solo
sanitaria, di una intera valle. Sullo sfondo poi, la questione del nuovo ospedale di Trento, storia infinita e
non più procrastinabile.


Forse giudicata troppo difficile la partita dell’ospedale provinciale, hanno spostato le mire su qualcosa di
più piccolo per far guadagnare gli amici? Può darsi. Sta di fatto che sembrano agire in maniera totalmente
dissociata dalla razionalità, anche per loro, che da inesperti si sono trovati a governare una
macchina delicata e complicata come quella autonomista.


Inoltre la scelta della creazione della nuova Facoltà di medicina a Trento sembra non rispettare le più
basilari regole del buonsenso
. Come giustamente evidenziato da molti, tra gli altri dal segretario generale
Anaoo su Quotidiano Sanità (giornale di settore), il problema della carenza di medici è da ricercarsi nel
post-lauream, cioè in coloro che laureati e abilitati alla professione non accedono poi al percorso delle
specializzazioni, obbligatorio per qualunque medico. Fondare una nuova Scuola di medicina (il termine
“facoltà” è invero desueto ai sensi dell’entrata in vigore dell’ultima riforma del settore) in uno Stato non in
grado di garantire la formazione ai laureati esistenti,
i quali vanno a costituire il famoso “imbuto
formativo” cioè quel collo di bottiglia formato dai medici laureati e abilitati alla professione che rimangono
privi del posto per specializzarsi nella branca scelta, per poi divenire medici specialisti e dunque fruibili per
il SSN, è un controsenso.

Per di più il progetto così presentato non sembra offrire qualcosa di innovativo,
ma un mero doppione delle più titolate università che circondano la nostra provincia (da Innsbruck a
Bologna, e da Milano a Padova), senza considerare i costi di mantenimento di un’accademia di medicina.
Ben altra valenza avrebbe avuto la proposta di progetto serio, che vedesse la creazione di un’Accademia
sovraregionale guardando all’ Euregio, cioè di ampio respiro culturale e scientifico, in cui la formazione e le
occasioni di carriera racchiudessero una sintesi delle diverse esperienze in campo medico, formando
dunque un professionista moderno ed europeo, così come richiede la società dei nostri tempi.

Una sfida
che attualmente non è stata colta da chi di dovere. Proprio di questi giorni è la triste notizia del primo
bilancio negativo dell’Ateneo trentino, in rosso di ben 4 milioni di euro, situazione inedita in sessanta lunghi
anni di storia. Questa la dice lunga su come la Giunta tratti la cultura nonché sul suo metodo d’azione,
ovvero il non metodo, basato su slogan arcipopulisti figli di una politica superficiale e inadatta mirata all’accaparramento dei voti nell’immediato, una campagna elettorale perenne che urla molto e conclude poco.


Ecco che dunque anche il Trentino riesce a farsi un incredibile autogol, sfornando laureati senza poi
permettere loro di completare il percorso.
Qui si innesta poi la complessa discussione sulla migrazione dei
nostri giovani medici all’estero, dove oltre a trovare posti, direi piuttosto facilmente, sperimentano
metodiche lavorative dinamiche, che poco hanno a che fare con i nostri macchinosi e ormai poco attuali
reparti universitari. Non può certo essere tralasciato la voce stipendiale, che in Italia è irrisoria, un insulto al
professionista e una vergogna per lo Stato che si ostina, unico in Europa, a considerare lo specializzando
una specie di studente, seppur titolato.

Un cenno merita poi il trattamento che riceve di sovente il giovane medico anche dal punto di vista professionale, tra soprusi, minacce e modus operandi dei primari universitari che, generalmente assumono certo comportamenti né onesti né adeguati all’Istituzione che rappresentano, l’Università, la quale dovrebbe essere la massima espressione culturale di un Paese e invece
si riduce spesso a covo di clientelismi e lacchè, su questo si potrebbe esemplificare per pagine e pagine, ma
sarebbe un racconto trito, di cui però non si può non fare menzione dato che rientra tra i fattori che
privano l’Italia di giovani in generale e dunque anche e soprattutto, di giovani medici, stante la lunghezza
del percorso con annessa necessità di sopportazione delle situazione per un lungo lasso di tempo.


Tutto considerato quindi, sempre più neo abilitati migrano dove ricevono un trattamento consono alla loro
figura, il medico, per cui hanno studiato e faticato per ben sei lunghi anni.
E fanno bene. Bisogna
sottolineare che i due aspetti, cioè trattamento economico e personale, costituisco un connubio
incredibilmente potente per convincere gli interessati ad abbandonare l’Italia. Talmente micidiale da
escluderla a priori da qualsiasi possibilità di confronto, non può reggerle, tanto è indietro. Taluni possono
chiedersi perché mai “la bomba” sembra essere scoppiata negli ultimi anni. La risposta è relativamente
semplice.


Tra le innumerevoli positività recate dall’ Europa, può essere annoverata anche una sempre più agile e
facile mobilità lavorativa tra gli Stati membri. Fino a pochi anni fa le carte da compilare erano moltissime e i
tempi di attesa molto lunghi, ora tutto è cambiato e dato che ogni professione, inclusa quella medica, ha un
mercato…il gioco è fatto, la via è spianata, i numeri impietosi.

Tra il 2009 e il 2012 le richieste di certificati di congruità, essenziali allo svolgimento della professione all’estero erano 5000, l’aumento vertiginoso delle domande ha visto le richieste aumentare sino a contarne 2000 nel solo 2014. Nel 2010 prendeva
finalmente forma l’importante documento “WHO Global Code of practice on the international recruitment
of Health Personnel”, che nella parte in cui ascrive alla mancanza di personale sanitario altamente e
continuamente istruito lo scadimento della perforamance di un sistema sanitario, in molti leggono un
ammonimento ad hoc per il nostro paese. La questione coinvolge, naturalmente, anche i professionisti
formati, cioè specialisti, che sempre più spesso scelgono di abbandonare l’Italia, dato che il 52% per centro
della mobilità sanitaria europea è costruita da medici italiani. Ma non è finita, anche coloro i quali riescono
a entrare in quello che dovrebbe essere un diritto, cioè nel percorso di specializzazione, proprio a causa
delle condizioni sopracitate a un certo punto, sfiniti, abbandonano la Scuola di specializzazione scelta. Si
pensi che gli ultimi dati narrano di 6 mila giovani medici che, sottopagati e sfruttati dal sistema italiano,
fuggono dal nostro Paese per andare altrove. Su 30.452 contratti di specializzazione banditi dal Ministero
(anni 2021-2022) sono 5.724 quelli non assegnati o abbandonati. In percentuale si parla del 20% cioè 1 su 5.
Per un Paese in forte carenza di sanitari è una quota molto alta che tradisce anche un fallimento del
sistema, evidentemente per nulla attrattivo.
… e allora, come facciamo?


Dunque è chiaro che al professionista è necessario offrire carriera innanzitutto, il giusto corrispettivo
economico, tranquillità e serenità lavorativa. L’ APSS, ossia la nostra Azienda ospedaliera provinciale, nei
prossimi anni subirà una profonda ristrutturazione, sia come personale che come strutture. Verrà in sostanza rivoluzionato l’intero sistema, e scrivo rivoluzionato e non riformato, data la necessità di qualcosa
di più di una semplice “revisione” dell’esistente.


Per attuare l’ambizioso piano e permettere, in ultima analisi, la sopravvivenza della sanità pubblica, è
necessario, a mio avviso, sfruttare al massimo le prerogative concesse dalla nostra autonomia, che in
questo come negli altri ambiti deve tornare ad essere protagonista nel proporre idee innovative, offrendosi
come laboratorio di nuovi progetti.

Questo passa per la riorganizzazione degli ospedali di valle i quali devono identificarsi per una
specializzazione di punta, accanto alla creazione di spazi adeguati che possano offrire alla popolazione i
servizi di base di ogni specialità medica, creando così dei centri massimamente indipendenti, limitando così
la centralizzazione, che rende l’esistenza dell’ospedale periferico insensata e insostenibile. Indispensabile è
poi un miglioramento in merito alla questione del sovraffollamento dei Pronti soccorsi (PS), fenomeno a
mio avviso affrontabile tramite la creazione di ambulatori (o poliambulatori) diffusi sul territorio in grado di
trattare le patologie minori in cui il medico di medicina generale o specialista possa, coadiuvato da
personale infermieristico e in una struttura adeguatamente attrezzata, trattare le affezioni di minor rilievo.
Questo permetterebbe di superare le ormai obsolete guardie mediche dove medici soli e privi della
strumentazione necessaria, si trovano di sovente e dover indirizzare il paziente al PS più vicino, pur
trattandosi di patologie classificate come codice bianco, cioè quelle prestazioni che non sono riconosciute
come urgenti e che pertanto dovrebbero essere risolte dal medico generalista.


Deve anche essere completamente rivisto il percorso di formazione della medicina di base, già di
competenza completamente provinciale. Personalmente non vedo alcun senso nel mandare i corsisti per
due, tre settimane nei reparti senza dare un dettagliato programma e un adeguato tutoraggio affinchè
possano effettivamente accrescere le proprie competenza sulla materia di volta in volta trattata. Anche lo
strumento della videoconferenza, esploso con il Covid, si rivela molto utile, così come quello di rendere
disponibile il materiale didattico sulla rete. Penso, per esempio, a quanto sia utile disporre di iconografia in
un campo come la dermatologia.

Vale di più un corso di lezioni in videoconferenza magari anche registrate
e dunque sempre a disposizione, con una spiegazione delle differenti patologie cutanee corredata da molte
foto, che poi il discente fissa nella mente per riconoscere le differenti affezioni cutanee, piuttosto che un
tirocinio in cui egli è “gettato” in corsia senza un vero scopo. Inoltre è a mio parere di molto buon senso per
un medico di medicina generale saper eseguire in maniera adeguata gli esami strumentali di base come
l’ecografia, e l’elettrocardiogramma il cui insegnamento dovrebbe occupare periodi lunghi all’interno del
percorso. Sono degli esempi, ma esprimono il desiderio di creare, alla fine del percorso, dei medici
generalisti in grado di affrontare l’inquadramento base delle patologie, senza dover indirizzare subito il
paziente in PS o dallo specialista. Il medico di base deve riacquisire il proprio ruolo, importantissimo, di
perno della sanità territoriale, di “smistatore” della sanità, che sappia indirizzare l’utenza quando
necessario e adeguatamente all’esecuzione degli accertamenti realmente necessari.


L’innovazione maggiore, a mio avviso, quella dove la nostra autonomia potrebbe davvero esprimere la
propria qualità e lungimiranza, è connessa alle specializzazioni mediche. Nessuno è infatti contrario
all’istituzione di un centro di formazione universitario nella nostra provincia. Ma tutto dipende, come
sempre, dal contenuto della proposta. E’ difficile pensare a un futuro di sviluppo se il progetto è quello di
una Scuola di medicina (ex Facoltà) in senso classico.

Non esiste bacino d’utenza, nè numeri. Inoltre i costi da giustificare e recuperare sono altissimi. Una Scuola di medicina consuma, da sola, circa i due terzi dell’attuale bilancio (già in rosso di 4 milioni di euro, sic!) dell’Ateneo trentino. Diverso è più attraente è un progetto, sempre universitario, rivolto al post lauream. Si tratta di avviare, sfruttando le prerogative
concesse dall’autonomia, un percorso di formazione specialistica su base provinciale, in cui l’Apss possa
offrire percorsi d’eccellenza tramite convenzioni con centri italiani ed esteri, possibilità di ricerca,
formazione e perfezionamento che consentano al medico quell’interscambio fondamentale per la
preparazione indispensabile ai lavoratori della sanità del presente e soprattutto dell’imminente futuro.

Per questo l’Euroregione rappresenta una potenzialità tutta da sfruttare che permetterebbe un arricchimento
culturale e personale immenso. Chi di noi medici ha avuto la fortuna di poter svolgere un periodo all’estero
sa quanto affascinante e insostituibile sia il confronto scientifico con i colleghi di altre nazioni. Il valore
universale del sapere medico consente di accrescersi velocemente, se inserito in un ambiente stimolante,
facendo propri metodi di lavori differenti per poi portarsi dietro un bagaglio culturale magari da esprimere
tornati nella propria sede. Questo genera qualità, che va oltre la medicina, naturalmente.


Quando descritto è quello che è già in atto in molti centri europei, le connessioni, la qualità portano a
possibilità di carriera altrimenti inconcepibili e creano infine attrattività, scopo finale per trattenere i medici
sul territorio. A proposito di quest’ultimo elemento, l’attrattività, attualmente perduta in un sistema ormai
stagnante, è connesso il cambio di inquadramento contrattuale dello specializzando, che dovrebbe essere
considerato un medico a tutti gli effetti, come in realtà è in tutti i paesi d’Europa, ma che purtroppo in Italia
continua ad essere considerato una specie di studente seppur “senior” per così dire.

E’ormai d’obbligo per un’autonomia che creda in se stessa, offrirsi come laboratorio di sperimentazione per l’istituzione della
figura del “Dirigente medico in formazione” che offra al giovane collega uno stipendio adeguato, ora è solo
una borsa di studio, un riconoscimento pensionistico pieno degli anni di specializzazione, straordinari pagati
e tutte le tutele connesse a un professionista vero e proprio. Ritengo inoltre che la formazione medica
debba, per forza di cose, cessare di essere universitaria per divenire un percorso clinico, così come già è nei
più avanzati Paesi europei. Ma questo obiettivo non può che essere raggiunto per gradi, stante l’esclusività
della competenza statale in materia. Nel prossimo futuro l’obiettivo è inserire una proposta di formazione
provinciale nel percorso accademico che sappia cioè offrire quanto sopradescritto, rimanendo nei confini
delle competenze provinciali, gestendo quindi con sagacia e maestria le competenze della nostra
autonomia speciale, rimaste purtroppo silenti in questi ultimi cinque bui anni di governo delle destre
populiste.


Va da sé che ogni proposta di riforma, soprattutto se radicale, necessita di confronti continui con le parti
interessate. In questo caso deve quindi essere data a tutti i lavoratori delle sanità, l’opportunità di
partecipare e discutere dei cambiamenti di cui saranno protagonisti. Solo così, a mio avviso, nasceranno
progetti validi, le riforme calate dall’alto, imposte da politici poco competenti, che rifuggono il confronto,
ben consapevoli della contrarietà che incontrerebbero le loro proposte, se fosse data voce in capitolo alle
parti interessate, hanno vita breve e rischiano di creare situazioni peggiori di quelle esistenti. Il confronto è
l’anima di una politica vitale, la linfa di una società duttile e cangiante, in grado di cogliere le occasioni,
incanalare le istanze della popolazione e tradurle in energie positive, stimolanti e produttive.
Questa, a mio parere, è la strada giusta che sta intraprendendo la coalizione di centro sinistra. Una politica
sobria e non urlata, che si sofferma su temi importanti spiegandoli alle persone, che non ha bisogno di
organizzare piazze per autocompiacersi della paura della gente a cui peraltro non sa fornire soluzioni
adeguate e concrete per le problematiche quotidiane. Nutrirsi di malcontento non fornisce un buon
supporto alla popolazione, di converso ne aumenta la frustrazione, pericolosamente fino a farla esplodere.
Certo è che per sfruttare l’autonomia è innanzitutto necessario conoscerne le regole, il delicato
meccanismo e i complessi alambicchi che ne governano il funzionamento.

Federico Busetti