Carenza di medici: e se il problema fosse alla radice?

Da Paola Demagri

Propongo un’attenta disamina sulla questione che affligge il Sistema Sanitario provinciale e nazionale

Ormai è all’odine del giorno la problematica della mancanza di personale medico, in Trentino come
dovunque i professionisti sembrano propensi a fuggire in massa o nel settore privato o verso lidi esteri.
Questo accade soprattutto per quanto riguarda la nuova generazione, quella che dovrebbe prendere in
carico il futuro del Servizio sanitario nazionale e da noi provinciale. Quello che tanto ci invidiano all’estero,
uno dei migliori se non per qualità, sicuramente per capillarità. In Italia come in Trentino nessuno viene
abbandonato, grazie a quel bellissimo e affasciante articolo 32 della nostra Carta Costituzionale, che pone
lo Stato e le sue dirette promanazioni, quindi anche e anzi in modo particolare le Province autonome, come
primi organi di tutela della salute dei cittadini. Una dimostrazione di estrema sensibilità e lungimiranza da
parte dei Padri costituenti, i quali nei travagliati anni del dopoguerra seppero redigere una Costituzione
che, nonostante per certi versi incominci ad accusare gli anni è sempre attuale e la cui lettura provoca, per
la perenne attualità dei sui articoli e la profondità delle argomentazioni, una certa emozione e una buona
dose di riflessioni sul carisma, lo spiccato senso di intuizione e la capacità di proiettarsi nel futuro dei politici
di allora.


Con l’andare del tempo qualcosa si è però inceppato. Ma perché?


In questo articolo cercherò di spiegare la situazione in modo semplice e diretto ricorrendo anche
all’esperienza personale, ancora in me molto viva. Porterò esempi di amici e colleghi che ritengo utili per
meglio comprendere la complessa situazione nella speranza di non essere troppo noioso. Inoltre le
informazioni che seguono sono verificabili anche dalla lettura di numerosi articoli apparsi negli anni su
quotidiani autorevoli, uno su tutti “ L’Espresso”, che proprio in questo periodo sta svolgendo un’inchiesta
sulle specializzazioni in ambito sanitario. L’obiettivo è quello di rappresentare, almeno in linea di massima,
quello che è il mondo della formazione medica in Italia.
Il primo punto si cui vorrei soffermarmi riguarda quello che, a mio avviso, è l’origine del male, ciò da cui
tutto prende le mosse recando danno al sistema.


Punto 1. La malagestione


Fu nel 1999 il ministro Rosy Bindi, a mio parere amministratrice per nulla sprovveduta, che pur
dimostrando un certo buonsenso nella gestione della sanità, diede il via a questo sistema di formazione.
Sbagliando totalmente e clamorosamente l’approccio nella gestione delle giovani leve, cadde cioè laddove
è più probabile errare per un non medico alle prese con l’organizzazione della formazione. Stabilì infatti che
essa dovesse essere esclusivamente appannaggio delle università. Fu questo a mio parere, l’errore più
grande. Il sistema universitario venne dunque caricato di una responsabilità enorme, posta nelle mani di
relativamente poche persone, ossia i cattedratici. Detta categoria, nel nostro paese, è composta
certamente anche da brave persone, dedite alla propria missione di promulgatori del sapere ma, all’interno
di essi alberga purtroppo un sottoinsieme di energumeni che non rispondono esattamente ai criteri che si ci
si aspetta siano soddisfatti per coloro ai quali lo stato affida il complesso compito di rappresentare la
massima espressione culturale di un paese, cioè appunto l’accademia. In ambito medico questo è
particolarmente evidente proprio per la lunghezza del percorso che il titolo necessita e specialmente per
l’obbligo di ottenere anche una specializzazione per poi esercitare la professione desiderata. Quanto queste
presenze “deviate” inficino il sistema è testimoniato dal fatto che lo Stato ha dovuto financo cambiare la
modalità di accesso alle Scuole di specializzazione. Un tempo erano proprio i Direttori di Scuola a fare i
concorsi e poi a stilare le graduatorie, ora è un test anonimo fatto al computer, in modo da garantire più
correttezza. Il motivo del cambio è semplice. Con l’andare degli anni il loro modo di mortificare il merito a
scapito del clientelismo, del nepotismo e delle più lampanti scorrettezze in sede concorsuale sono divenute
insostenibili, lo Stato quindi è corso ai ripari. Con buona pace di coloro che non smettono di sottolineare i
difetti della metodica è l’unico modo per garantire una certa meritocrazia nella selezione all’interno di un

sistema che non riesce a espellere certe mele marce, finendone esso stesso vittima. Ma tali professori, che
dunque non sono pochi, detengono ancora il potere di organizzazione delle Scuole, della programmazione
delle lezioni e dei tirocini che sarebbero previsti dal piano formativo. Ho usato il condizionale perché
purtroppo le lezioni svolte sono assai poche, se non nulle, ed anche i tirocini non sono certo adeguati né
per numero e né, sicuramente, per qualità. Si pensi che sul contratto di formazione specialistica firmato da
ogni medico all’inizio del proprio percorso è riportato all’Art. 4: “il medico in formazione specialistica si
impegna ad assolvere un programma settimanale complessivo da ripartirsi tra attività teoriche e pratiche
secondo quanto stabilito dall’ordinamento didattico della scuola”. Naturalmente non esistono lezioni
settimanali, come dicevo, casomai potremmo contarle su base annuale, ma anche con questo criterio non
avremmo certo bisogno della calcolatrice. Bisogna sottolineare comunque che i tempi della medicina
moderna, sempre più frenetica, mal si conciliano con il reperimento di tranquilli momenti in cui poter
svolgere delle lezioni, togliendo dunque un medico, sia esso accademico o meno, al lavoro di corsia, in
particolar modo negli ospedali universitari, grandi e non ottimamente organizzati. Non mi dilungo con la
citazione e il commento degli articoli del contratto di formazione, ma posso affermare con granitica
certezza che, in sostanza, il giovane medico in Italia firma un contratto in cui è contenuta la certezza di
essere sfruttato, sottopagato e talvolta anche umiliato come professionista e come persona. Mi si permetta
di ricorrere a ricordi personali in cui non ho visto in quattro anni una lezione della materia oggetto della
specializzazione, non ho svolto i tirocini previsti e quando ne chiesi il motivo mi dissero che era meglio
tacere. Naturalmente ho citato un’esperienza personale ma, credo eloquente, di ciò che può accadere in
talune scuole di specializzazione, senza possibilità di intervento da parte di alcuno. Ora si sono inventati i
criteri di valutazione, tentativo di controllo da parte del Ministero sull’ attività e sulla qualità delle Scuole.
Come si può facilmente evincere non è certo abbastanza, ma quantomeno si registra la presa di coscienza
che qualcosa non va. I fatti parlano chiaro, i criteri valutativi sono fragili, facilmente ingannabili e
l’emorragia di medici verso l’estero non si placa, mentre in quelli che rimangono cresce frustrazione e
insoddisfazione. Il 3 giugno 2022 L’Espresso pubblicava l’ennesimo interessantissimo articolo in cui si
descriveva la vita impossibile di uno specializzando, si narrava delle 80 ore alla settimana richieste, della
responsabilità di dover reggere sulle proprie giovani e inesperte spalle le sorti giornaliere di un interno
reparto, delle pause pranzo sostanzialmente inesistenti, del tempo libero, diritto di ogni lavoratore,
totalmente assente. Vi sono poi, come di consueto, a fronte degli zero diritti, i numerosi doveri, nel caso
specifico racconta lo specializzando, quello di scrivere due articoli scientifici all’anno a pena di ripercussione
e ritorsioni in sede di esame di passaggio di anno. E qui ci fermiamo, urge spiegazione. Si deve infatti sapere
che non solo si lavora in condizioni pessime, stancanti il fisico e direi quel che è peggio, laceranti la psiche e
l’animo, ma alla bisogna dell’istituzione universitaria per completare l’annientamento dell’individuo si
ritorna studenti, dovendo superare un esame per passare all’anno successivo. Dato che le lezioni non
vengono fatte e che si lavora come degli “schiavizzandi” per usare il termine burlesco usato da un’anziana
dottoressa dove ho svolto la formazione, il sottoscritto non ha mai accettato la presenza di questo esame
che, in linea con il modo di intendere la formazione da parte degli accademici sopradescritti non è altro che
il luogo dove praticare le vendette contro gli specializzandi non graditi, meno lacchè, a loro modo di vedere
in un una parola: i reietti. Mi soffermo per qualche riga sull’obbligo inerente alla pubblicazione di due
articoli scientifici descritta dallo specializzando protagonista dell’articolo. Ebbene sono modalità di
coartazione diffuse, che ancora una volta non guardano certo all’aumento del prestigio del curriculum del
giovane medico, di cui naturalmente a nessuno cala un bel nulla, bensì al numero di pubblicazioni utili alla
Scuola e ai Direttori per darsi lustro, proprio per soddisfare i criteri valutativi. Le ritorsioni di cui lo
specializzando parla si verificano solitamente durante l’esame di passaggio di anno, unica utilità, se può
essere considerata tale, di un esame quindi basato sul nulla, che non contempla certo la valutazione di
conoscenze e non si basa su criteri meritocratici.
In un altro articolo de “L’Espresso”, intitolato “ La sanità italiana si regge sui medici specializzandi: giovani e
sfruttati, ora molti stanno abbandonando” questa volta pubblicato in data 22 maggio 2022 si affronta il
problema della carenza di medici, racconta situazioni analoghe a quelle del collega frequentante a Napoli,
ma il teatro sono questa volta l’ Università La Sapienza di Roma e l’Università di Verona. A testimonianza
dell’omogeneità del malcontento che si spalma da sud a nord del Paese e a dimostrazione di come la deriva
sia complessiva. Mi ha colpito in particolare lo stralcio dello scritto in cui si riporta che “ … agli
specializzandi di Verona è stato consegnato un orario turni che supera le 250 ore mensili, violando qualsiasi

direttiva europea e nazionale sul rispetto delle pause e de riposi. E sempre a Verona, a causa della carenza
di organico, gli specializzandi vengono mandati in sala operatoria a fare le veci dei medici anestesisti …” .
Innanzitutto mi fa piacere che gli specializzandi veronesi abbiano finalmente trovato il coraggio di
denunciare la situazione da me ben conosciuta, inveterata, ma sin ora sempre passata sotto silenzio per
paura delle solite rappresaglie e minacce. In seconda battuta è d’obbligo una riflessione: mi chiedo fino a
che grado di scorrettezza possano spingersi i Direttori e annessi professori che governano la formazione,
fino a che punto essi possano sentirsi sicuri nel costringere i giovani medici a fare qualsiasi cosa, se
addirittura si mette nero su bianco un piano di ore di 250 ore mensili, violando le normative, ma
soprattutto il buonsenso, nonché la sicurezza degli stessi specializzandi e in ultimo dei pazienti.
Progredendo nell’ attingere importati informazioni dall’articolo si apprende che alla domanda presente
all’interno del questionario annuale somministrato agli specializzandi inerente alla soddisfazione in
riferimento alla propria Scuola di appartenenza, ben un terzo delle 988 scuole esistenti non raggiunge la
sufficienza, spicca il voto 1 (uno) alla scuola di specializzazione di Medicina del Lavoro di Verona e a quella
di Cardiochirurgia di Roma Tor Vergata. Per tornare a parlare del clima creato da taluni cattedratici lo
scritto cita anche il caso di un giovane medico che accusa il proprio professore di costringere gli
specializzandi a compiere delle flessioni ogni qualvolta essi si presentino tardi in reparto. La Scuola in
questione è quella di Ortopedia di Salerno dove, per inciso, non si raggiunge il numero minimo di interventi
necessari ad essere Scuola di Specializzazione, tuttavia se non sbaglio essa ha ottenuto ugualmente
l’accreditamento in base ai criteri di valutazione già citati, evidentemente raggirati.
Personalmente ho l’impressione che gli ispettori siano costretti a chiudere di sovente non uno ma anche
entrambi gli occhi, altrimenti le chiuderebbero quasi tutte. A me fu chiesto di pulire gli scantinati
dell’Ospedale, di lindare l’ambulatorio dopo averlo usato, compreso il bagno adibito ai pazienti.
Naturalmente non lo feci mai, ma alcuni colleghi esaudirono la richiesta, immagino. Colleghi di altre Scuole,
ora specialisti, mi hanno riferito di aver dovuto portare la macchina del Direttore a lavare, di avergli dovuto
ritirare gli abiti in tintoria ecc.
Il risultato può dirsi scontato. Tale clima di esasperazione e direi annientamento della professionalità e
della personalità, condito e sapientemente miscelato, con buona e quotidiana dose di umiliazione ha
prodotto quest’anno ben 846 abbandoni delle Scuole da parte degli specializzandi. Vuol dire che l’Italia si è
privata, in molti casi per sempre di 846 medici, ai quali naturalmente sono state pagate le mensilità fin
quando hanno frequentato, soldi definitivamente persi, come perso è l’inestimabile patrimonio culturale e
umano che rappresentano questi medici.


Punto 2. Trattamento economico


La seconda grande questione che stritola la formazione medica nel nostro paese è rappresentata dall’entità
degli stipendi, in realtà termine improprio dato che giuridicamente si tratta di un contratto formazione-
lavoro e dunque si parla più correttamente di “borsa di studio”. Andiamo subito al sodo, essi percepiscono
1650 euro mensili che vengono aumentati di 100 euro negli ultimi due anni di specializzazione, la quale
dura 4 o 5 anni conformemente al percorso scelto. Talvolta l’inquadramento statale come borsa di studio è
utilizzato per sostenere bizzarre e poco opportune tesi circa il presunto vantaggio che un siffatto
trattamento avrebbe per gli specializzandi, stante l’esenzione da oneri fiscali. Certamente è così per quanto
riguarda l’Agenzia delle Entrate, lo Stato per intenderci. In realtà le cose sono completamente diverse.
Infatti, se fiscalmente le borse di studio sono da considerarsi “protette” non lo sono certo per quanto
attiene alla tassazione universitaria. Leggendo un interessante relazione di FederSpecializzandi si evince che
il valore medio degli importi minimi versati da ciascun specializzando ammonta a 1.574,93 euro. I valori
massimi sono ben oltre le due mensilità. Questo, in una condizione contrattuale che non prevede
tredicesima, straordinari e pieno riconoscimento dei contributi INPS. Per questo aspetto l’acuto ragioniere
di Stato che ha pensato il contratto di lavoro per i giovani medici, ha inventato una formula beffarda a cui
ha dato il nome di “gestione separata” cioè a dire che gli anni non sono riconosciuti dall’ente previdenziale
in toto bensì al 75%. Capite dunque la totale inadeguatezza contrattuale e in ultimo dunque, del sistema
formativo nel suo complesso. Esso è poco convincente sin dall’inizio, sin dalla prima cosa che lo regola,
ossia il contratto che ognuno firma all’inizio del proprio percorso.

Alcune riflessioni


Ho tentato di riassumere la problematica in due soli brevi punti di criticità, ma l’elenco potrebbe scorrere
ben più lungo, fino a riempire le pagine di un intero libro. Quando, come me, si viene a contatto con il
mondo accademico riguardante la formazione medica si intuisce fin dagli esordi che essa è paziente
gravemente malato, financo boccheggiante. Certo a causa della preponderante presenza di mele marce al
suo interno, che la riducono a covo di relazioni antimeritocratiche e nepotistiche, ben poco confacenti ai
sogni e alle aspettative di un giovane medico. Ecco quindi che il professionista agli albori della carriera si
sente deluso, annientato e umiliato non solo nel portafoglio ma anche nella propria identità.
Taluni danno dei “mammoni” agli italiani ma, obietto io, è lo Stato che non concepisce l’indipendenza prima
di una certa, avanzata, età. Pensate che il mio professore, mentre noi ci arrabattavamo a pagare affitti,
tasse e spese di sostentamento, facendo di tutto per tentare di non chiedere soldi ai nostri genitori, cosa
piuttosto imbarazzante tra l’altro, sosteneva a gran voce che gli specializzandi fossero dei soggetti
economicamente privilegiati. Questo è indicativo di come la stupidità più sordida alberghi ai piani gestionali
più alti.
L’Italia è appena prima della Grecia per trattamento economico degli specializzandi, ma uno è un Paese
fallito pochi anni or sono, l’altro è l’Italia, ossia la terza economia europea e alcuni sostengono la seconda,
in taluni settori. Un interessante dossier di Federspecializzandi riporta come la legge n. 398 del 30
novembre 1989 sancisca l’impossibilità di conteggiare la borsa di specializzazione come gettito reddituale,
cioè lo stesso Stato codifica che in Italia un medico laureato e abilitato alla professione non sia da
considerarsi individuo indipendente dando quindi per scontato che viva con i genitori. Questo, assieme con
lo scarso introito economico rende la specialità elitaria, in quanto materia per coloro i quali hanno genitori
facoltosi, non parliamo poi dell’impossibilità di sposarsi e avere una famiglia, cosa naturale verso i
trent’anni, ma non evidentemente non per i medici italiani.
Ora, anche per il non esperto è facile capire come mai lo specializzando italiano sia il più insoddisfatto
d’Europa, con articoli sia di riviste dedicate che generaliste a denunciarne periodicamente la situazione.
Fareste un lavoro di alta responsabilità come il medico, pagati in modo pessimo, con turni massacranti in
cui vi si chiedono anche le umiliati prestazioni elencate sopra, con un trattamento contrattuale come quello
descritto? Secondo me pochi di voi sarebbero disponibili, ma se si vuole una specializzazione in Italia è
questo il prezzo da pagare e ad aggrevare la questione, la beffa finale è la richiesta da parte delle università
delle tasse, come già spiegato. In sostanza si paga per essere motteggiati, denigrati e sbeffeggiati dalla
Stato. L’apoteosi della stupidità, un po’ come se l’animale pagasse il cacciatore che lo uccide. Già…uccide,
questo sistema uccide e non uccide solo il singolo, ma anche il Sistema Sanitario, colpisce a morte, in
ultimo, se stesso. Il connubio di tutte queste negatività in cui spicca il trattamento economico non
adeguato unito sostanzialmente, a una intollerabile mancanza di rispetto, anche contrattuale del
professionista ha una conseguenza tanto semplice quanto deleteria: la migrazione all’estero.
Già nel novembre 2016 il giornale “Quotidiano Sanità” affrontando la problematica della carenza di medici
riportava che le richieste della documentazione per lavorare all’estero erano passate dalle 396 del 2009 alle
2.363 del 2014. Un altro articolo, questa volta apparso nel 2019 su “Il Giornale.it” riportava che tra i camici
bianchi richiedenti l’espatrio per esercitare in un altro paese il 52% era italiano. I dati non differiscono tra
specialisti e specializzandi ma sta a significare che prima o dopo, esausti, se ne vanno.

E in ultimo…cerchiamo una soluzione

Come è possibile ovviare al problema? Bisogna prendere le mosse da quello che sta accadendo nel mondo
medico. Pensiamo alla legge n. 60 del 25 giugno 2019, il famoso decreto Calabria in base al quale gli
specializzandi possono essere assunti dalle aziende ospedaliere anche non universitarie dal terzo anno di
specializzazione in poi. La lettura della legge dovrebbe suscitare negli osservatori qualche dubbio e
perplessità. Infatti, se si ammette che la formazione svolta con le modalità vigenti sia di qualità, come è
possibile che i medici specializzandi siano considerati idonei all’assunzione prima del completamento del
percorso?. La risposta è semplice. Perché un tale percorso non è di qualità, anzi, gli insegnamenti migliori,
utili per la professione vengono appresi sempre negli ospedali non universitari, tutti noi abbiamo aspettato
e chiesto di recarci almeno per un periodo in una sede convenzionata, ossia presso quegli ospedali non
universitari che hanno stipulato accordi con la Scuola universitaria a cui afferisce lo specializzando. Questa
possibilità di frequentazione è resa possibile dal contratto di formazione e a pensarci bene è la sola nota
positiva. Potersene andare dall’ambiente accademico per recarsi in un luogo certamente più ameno, come
l’ospedale clinico è una boccata d’aria fresca. È qui che si conosce il vero mondo medico e in cui le
condizioni di vita sia professionale che personale conoscono generalmente un netto e inequivocabile
miglioramento. E’ in ultimo in queste strutture che fiorisce la stimata classe medica italiana. Quella
apprezzata all’estero, preparata e affidabile.
Ma torniamo al nostro decreto. Vedete, è l’ennesimo tentativo di scatto in avanti da parte delle Regioni.
Esiste uno Stato fermo, incapace di gestire e organizzare la formazione medica, privo di fondi per garantire
un adeguato trattamento economico ai lavoratori del settore, a cui si contrappongono le amministrazioni
regionali e provinciali, che gestiscono la sanità del proprio territorio e manifestano chiaramente la volontà
di sopperire alla carenza dei medici con mezzi propri, avendo le sia le possibilità economiche che quelle
didattiche. La Sanità è infatti ad oggi il settore, forse l’unico, in cui più si avverte un certo federalismo. E
allora mi chiedo come sia possibile che le Regioni e le Province Autonome possano gestire la Sanità
eccettuata la formazione. Mi sembra un’assurdità, un’incongruenza macroscopica da sanare.
La soluzione ultima è per certi versi banale ma all’atto pratico piena di insidie per le resistenze, soprattutto
accademiche, che la proposta può suscitare. E’ necessario, a mio avviso, slegare la formazione medica dall’
Università per farla rientrare nelle competenze del Servizio Sanitario delle diverse Regioni/Province
Autonome. Per richiedere questa competenza è d’obbligo richiedere un tavolo di confronto a livello statale
e superare al contempo la legge Bindi bisognosa di aggiornamento, spostando la competenza della
formazione dallo Stato alle amministrazioni locali che oltretutto possono stipulare convenzioni proficue e
probabilmente ancor più partecipate e stimolanti con gli atenei presenti sul territorio, pur inquadrando il
sanitario come proprio dipendente. In breve la proposta è l’istituzione del Dirigente medico in formazione,
con stipendio adeguato, contributi e straordinari pagati insieme a tutti i diritti e i doveri di qualsiasi altro
medico, esattamente come accade nella maggior parte dei paesi europei in grado di essere attrattivi,
proponendo condizioni di lavoro e trattamento contrattuale adeguato alla professione medica moderna.
Questo è, secondo me, l’unico modo per porre fine alla diaspora sanitaria nel nostro Paese e dunque anche
nella nostra piccola Provincia Autonoma. E’ su questo aggettivo che vorrei porre l’accento: Autonoma. A
questo serve la nostra autonomia, a proporsi come fucina sperimentale per idee nuove, a proporsi come
terra in grado di precorrere i tempi e anticiparne le istanze, a porsi cioè come laboratorio instancabile, reso
possibile proprio in virtù di quelle prerogative autonomiste che ereditiamo dalla nostra storia, complessa e
affascinante in cui il Trentino ha saputo spesso essere il faro trainante anche per i territori confinati e non
solo, attirando interesse e l’ammirazione anche oltreconfine.


Naturalmente certi delicati temi necessitano di sensibilità particolari. La loro trattazione è mandatorio
avvenga per mano di personalità all’altezza, che conoscano i delicati meccanismi dell’autonomia, sappiano
gestirne le potenzialità e le probabili criticità. Non è possibile siano affrontati da una classe politica
centralista e statalista, chiaramente appiattita sui bisogni generici del Paese e poco avvezza a dedicarsi al
alle necessità del singolo territorio. Questa è una tipica istanza che cerca l’ abbraccio di un partito territoriale e ben radicato come quello Autonomista, unico in grado di negoziare con sicura titolarità al
tavolo romano.

Federico Busetti.