Università di medicina: verità o propaganda?

Da Paola Demagri

La più grande novità dell’accademia trentina è senza dubbio l’apertura della Scuola di Medicina, quella che in epoca pre-riforma si sarebbe chiamata facoltà, per intenderci. All’occhio della popolazione non esperta di affari sanitari appare senza dubbio una conquista, per una città piccola come Trento, un’aggiunta di cultura accademica a quella che già esiste e di cui orgogliosamente ci fregiamo. Ebbene ma è davvero così? Anche in questo caso la vicenda è carica di un certo populismo che necessita, a mio parere, di alcune riflessioni.

In primis è d’obbligo rammentare che, per poter funzionare, una facoltà (dovrei dire Scuola, mi si permetta il termine) ha bisogno di un adeguato bacino d’utenza. Se il progetto dovesse davvero partire così come concepito si noti che la nostra facoltà sarebbe stretta tra Verona a sud, Padova a sud-est, Brescia e Milano a ovest e da non dimenticare anche Innsbruck a nord. Dunque c’è da chiedersi che senso possa avere creare un centro di formazione in una zona che già pullula di offerta, alla quale inoltre è ben difficile fare concorrenza, data la consolidata presenza sul territorio e l’ indubbia fama.

Si rischia seriamente di fungere da “serie B”, di essere considerati per così dire la sede spazzatura, la sede, a farla semplice, in cui i cattedratici delle facoltà quotate mandano i loro sottoposti più indesiderati ottemperando al principio caro purtroppo al mondo universitario italiano del promoveatur ut amoveatur, atto che non contempla certo l’apporto di qualità scientifica. Chi ha frequentato taluni ambienti sa da quanto cinismo, meschinità e ipocrisia possano essere caratterizzati, atteggiamenti da cui Trento dovrebbe ben guardarsi. Il pericolo scegliendo Verona come partner, dove molti cattedratici non sono più le menti illuminate di un tempo, è reale. Purtroppo se non si riuscirà a mantenere una netta autonomia decisionale e passerà quella malata mentalità antimeritocratica che attanaglia quegli ambienti, si finirà per essere considerati alla stregua di una sede distaccata di seconda serie appunto, inficiando la reputazione di tutto l’Ateneo, sin ad ora sempre considerato di ottimo livello.

Come fare quindi a riempire questa “scatola”?

Non è poi difficile fondare un ente, basta determinarne le qualifiche giuridiche ed avere l’avvallo delle parti. Esattamente quello che è successo. Partiamo dal fatto che gli attuali governanti non hanno, anche in questo caso, prodotto un bel nulla perché l’idea e il piano era già pronto da tempo, dalle passate legislature, che saggiamente avevano però atteso per realizzare qualcosa di serio, promuovendo accordi che per nascere hanno inesorabilmente bisogno di tempo.

I progetti acchiappa voti sono figli della fretta populista che mal si concilia con un’azione importante come l’istituzione di una nuovo corso di studi come quello di medicina. A mio avviso, per le motivazioni sopradescritte, è necessario che Trento, se vuole dotarsi di una facoltà di medicina, offra qualcosa di particolare, che dia una motivazione ai futuri studenti e ai professori per scegliere di trasferirsi in una città sostanzialmente piccola e tra le montagne. La nostra posizione geografica e la nostra storia più esserci d’aiuto. Trento è infatti il vero crocevia culturale tra le tradizioni tedesche e quelle italiane, su questi principi si basano anche buona parte delle istanze autonomiste che hanno sempre caratterizzato questo piccolo pezzo d’Italia. E’ questo che va messo a frutto, guardando con lungimiranza europeista, oltreconfine, all’ Austria, a Innsbruck. Se si creasse un’università transfrontaliera in cui i Laender del tirolo storico unissero le culture, le tradizioni, le visioni scientifiche, allora sì che faremmo centro. Un progetto ambizioso che tuttavia ha la sua logica, a meno che non si intenda la tanto decantata Euroregione come entità insulsa, utile solo ad apparire su qualche cartello autostradale e su qualche foto di circostanza. Se Trento entrasse come sede in una collaborazione di questa entità si creerebbero certamente le basi per un incredibile salto di qualità di tutto il sistema e dell’intera provincia.

Chiunque abbia partecipato a collaborazioni internazionali tramite progetti di studio e ricerca sa quanto fermento e quante possibilità di accrescimento culturale, sia in senso lato, che nei propri specifici ambiti di interesse, forniscano queste esperienze.

Un’ offerta formativa di questo genere oltre a essere unica ed esclusiva in Europa, proietterebbe la nostra provincia tra le eccellenze universitarie assolute non solo nazionali ma probabilmente anche europee. La possibilità di imparare e collaborare stabilmente con i colleghi di altri paesi è sempre positiva e crea un volano di competenze difficilmente raggiungibile guardando esclusivamente al proprio ristretto orticello di casa. A questo si aggiunga l’opportunità di seguire le lezioni in differenti lingue con annesse e connesse opportunità di studiarle e perfezionarle direttamente sul campo.

Abbiamo delle strutture idonee?

Tutto ciò non ha però solo bisogno di tempo ma anche di adeguate strutture. Certamente l’attuale ospedale non può fungere da clinica universitaria, è necessario puntare su quel nuovo nosocomio che tanto fa discutere. Le problematiche che stanno insorgendo possono avere, dal punto di vista universitario, dei risvolti positivi. Infatti se si costruisse l’ospedale come sino ad ora concepito, si realizzerebbe in primo luogo un ospedale già vecchio di 20 anni e inoltre non adatto ai nuovi orizzonti che il Trentino sembra voler percorrere.

Ricordo bene che la Giunta Dellai, quella che per prima diede il via al dibattito sulla necessità di un nuovo ospedale, ne aveva in qualche modo intuito la possibile funzione come centro di formazione ma attenzione, per medici che venissero come “ospiti” per così dire. I giornali dell’epoca descrissero l’iniziativa con l’anglicismo “teaching hospital” , ossia un centro di cura che pur non essendo universitario disponesse di alcune caratteristiche idonee ad accogliere giovani colleghi per insegnare loro la pratica, più che altro. Tutt’altra cosa è la concezione di un vero e proprio ospedale universitario che, mi si passi il semplicistico ma efficace aggettivo, è cosa davvero “seria”.

Con la denominazione di ospedale universitario, o clinica universitaria, si intende una struttura che abbia un’ampia e attrezzata area per la ricerca, indispensabile per promuovere e produrre sapere, oltrechè per attirare le professionalità di cui necessita il concetto stesso di università, di qualsiasi tipo essa sia. Gli avanzamenti della tecnologia e il progresso medico rendono inoltre auspicabile la realizzazione di sistemi all’avanguardia che embrichino, interconnettano, il mondo della medicina pratica con quella universitaria, questo vuol dire sistemi informatici e apparecchiature che permettano alla ricerca di nascere e svilupparsi e possano fornire allo studente la preparazione necessaria ad affrontare la professione. Non solo, anche di aule, spazi e laboratori che devono essere per forza di cose interne alla struttura, o poco distanti.

Quanto descritto, naturalmente non è contemplato nell’attuale progetto, per il semplice fatto che all’epoca Trento non ambiva ad essere sede universitaria e di conseguenza, giustamente, si progettò la costruzione di un ospedale di un certo tipo, che avesse scopi più che altro di cura. Le opere, chiaramente, si realizzano perché devono avere un utilizzo, se cambia la fruizione, va da sé che debba cambiare il concetto stesso della sua costruzione. Ecco perché paradossalmente, i continui ritardi possono risultare quasi un vantaggio, da questo punto di vista.

A mio modesto parere non è il caso di mettersi ad agire di fretta proprio ora, non ha senso. Sono passati talmente tanti anni che è d’obbligo fermarsi a ragionare: si vuole dare al Trentino un ospedale già vecchio? E quel che è peggio, non rispondente alle attuali e soprattutto future esigenze? Sarebbe un terribile errore.

Certo, questi ragionamenti possono essere fatti con chi ha sensibilità per tali questioni, con chi ha la lungimiranza per immaginare il futuro sanitario della nostra provincia autonoma. In breve, purtroppo, non con chi attualmente governa. Essi infatti hanno dimostrato di non avere dimestichezza, a mio parere, con il governo dell’autonomia in generale e tantomeno in ambito sanitario.

Basti pensare ai curricula di coloro i quali hanno sostituito i vari primari andati in pensione, si pensi che il precedente primario di Medicina Legale, per esempio, con il quale ho avuto l’estremo piacere di collaborare, ha all’attivo più di 200 pubblicazioni, collabora con riviste nazionali delle materia ed è considerato un esperto nel difficile campo dell’invalidità civile, insomma, pur non essendo un accademico è riuscito ad avere una produzione scientifica di molto superiore al professore universitario medio. Molto diverse le attitudini del successore. Quanto citato ha valenza puramente esemplificativa, ribadisco, ma è eloquente di come chi non sa gestire la sanità spesso non disponga nemmeno dei livelli culturali minimi per individuare le giuste persone cui affidare i vari reparti, non riesca, in ultimo, a mantenere il livello qualitativo raggiunto.

L’ambizioso progetto che ho provato a descrivere è l’unico che fornisca una motivazione valida per aprire una facoltà di medicina in una città come la nostra Trento. Per poter iniziare la lunga strada verso l’eccellenza, peraltro già percorsa dalle facoltà di Giurisprudenza e Ingegneria, è necessario che la direttrice, la strada maestra per raggiungere lo scopo prefissato sia chiara da subito, un progetto deve contenere già alla nascita, seppur allo stato embrionale, il suo traguardo.

Per iniziare questo affascinante ma difficile cammino è inoltre indispensabile avere una guida politica solida, basata su principi fortemente autonomisti e che porti in seno una curiosa lungimiranza, imprescindibile per tradurre l’idea in concretezza. I grandi progetti necessitano di coraggio, passione sensibilità e cultura.

Federico Busetti